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L'ULTIMO ESPERTO
(ROMANO SCHIAVI)

Scrivere di Romano Schiavi, ex Generale ed ex perito ma ancora al lavoro in alcune occasioni, esperto di armi, munizioni, esplosivi e quello che vi gravita intorno è per me impossibile e allora per far più un onore a questo sito e onorare lo stesso Romano, lascio (e riporto) come lo presenta un altro illustre esperto: Edoardo Mori.

http://www.earmi.it/varie/schiavi.htm Il generale Romano Schiavi, per quanto ne so il miglior perito per esplosivi ed armi che abbiamo avuto in Italia, giunto a quell’età in cui si tende a far dei bilanci della propria vita, ha pubblicato un libro di ricordi sulle proprie esperienze di esperto nell’arco di quarant’anni. Il che vuol dire che ha visto nascere e fatto crescere la scienza delle perizie balistiche ed esplosivistiche in Italia.
Ha scritto un libro con stile umoristico che ripercorre i casi giudiziari famosi da lui trattati; ma lascia l’amaro in bocca perché la realtà che ne esce è desolante.
In quarant’anni non si è riusciti a far comprendere ai giudici che fra i periti vi è una marea di ciarlatani e scalzacani e che se questi entrano in un processo, rovinano il processo e molti innocenti; di recente si sono viste indagini su casi gravi ridicolizzate dalla approssimazione dei laboratori ufficiali; è noto che vi sono periti esperti soltanto nel presentare parcelle milionarie che lo Stato paga senza fare una piega; ecc. ecc.
Eppure il migliore dei periti (lui questo non lo racconta, ma lo so io) è stato lentamente messo da parte perché aveva lo sciocco vizio di dar torto ai pubblici ministeri; e questi, è noto, non amano che si sgonfi ciò che essi hanno gonfiato con tanta cura e che si faccia toccar loro con mano, che il loro perito di fiducia, magari aduso a frequentare gli ambienti giudiziari, così abile a creare accuse  per sbattere i mostri in prima pagina, era un pazzoide incompetente.

Così invece si presenta Romano Schiavi nella sua pagina di Facebook:
https://www.facebook.com/romano.schiavi

Ho constatato che quando qualcuno viene accusato di aver commesso un reato e viene, per sua fortuna o sfortuna, intervistato in TV, immancabilmente dice: “ho fiducia nella Giustizia”. Questo per testimoniare “coram populo” la propria innocenza e, magari, per far arrivare il messaggio alla coscienza del magistrato. Se fosse Pinocchio a dirlo, tuttavia, gli si il suo naso si allungherebbe fino a fuori casa. Come si fa infatti a parlare così, quando la Giustizia è amministrata da uomini che, per quanto dotti e illuminati, non sono infallibili come crediamo sia il Signor Iddio? Va bene, ci sono le Leggi. Ma le Leggi vanno interpretate perché se fossero davvero così chiare, non sarebbero necessari gli avvocati. Purtroppo, non possono esistere certezze assolute sul cammino della Giustizia, anche se speriamo vivamente che non sia così, nonostante i tre gradi di giudizio in cui il cittadino ha la possibilità di dimostrare la sua innocenza, pur incontrando giudici al massimo delle capacità di giudicare e senza i pregiudizi e passioni da cui nessun essere umano è immune. Ho sufficiente esperienze di Tribunale per poter fare statistiche e facendomi forte di queste, ho cercato di dare una risposta ad un quesito ricorrente, visto il proliferare di aggressioni, furti ed omicidi: si può sparare? Avevo parlato della cosa nel libro “Tra bombe e veleni…una vita!” ed ecco cosa dicevo in un capitolo in cui avevo parlato più spesso di questo problema:

SI PUÒ SPARARE ?

Si dice che è meglio un cattivo processo che un buon funerale. Io, invece, penso che un cattivo processo equivalga a un funerale e che sia, quindi, molto più difficile scegliere fra le due soluzioni. Dipende dalla sensibilità di ciascun individuo. Io, tiratore a livello mondiale, avevo fatto a suo tempo la scelta di andare in giro disarmato perché mi spaventava il fatto che difficilmente avrei mancato il bersaglio in caso di aggressione anche se, confesso, quando uscivo per un’azione antisabotaggio che mi puzzava di agguato, mi portavo dietro l’arma per garantirmi la sopravvivenza meglio di quanto avrebbero potuto fare i miei tutori.
A quelli che, pertanto, mi chiedono se val la pena andar in giro armati e cosa potrebbe succedere a far uso delle armi e a cosa andrebbe incontro chi lo facesse, non so rispondere.
I fatti che racconterò, alcuni fra i tanti investigati che mi tornano alla memoria, sono riportati proprio per rendere evidente le disparità di giudizio che si possono avere nel valutare un fatto.
A pochi chilometri da Brescia ci fu una rapina presso un’oreficeria in cui il rapinatore fu ucciso. Era capitato che il figlio del titolare fosse entrato in negozio rapina durante e che fosse stato mandato ad aprire la cassaforte, senza essere perquisito. Il giovane approfittando di una disattenzione del rapinatore che stava arraffando quanto poteva dal bancone, estrasse la sua potente pistoletta cal. 6,35 brw. e lo minacciò.
Queste cose non "s’hanno da fare!" A Darfo un orefice fece altrettanto e fu ucciso, a Coccaglio un altro fu gravemente ferito così come accadde nel Vicentino, dove invece l’orefice morì anche lui. E potrei continuare nell’elenco di questi casi sfortunati preminenti su quelli a lieto fine.
Anche nel caso di cui stavo parlando, il rapinatore, niente affatto impressionato, puntò la sua calibro 40 Smith & Wesson che, vista di fronte, doveva sembrare grande come una casa. L’orefice allora sparò e il rapinatore cadde a terra, ma prontamente si rialzò e puntò di nuovo la sia pistola. Di nuovo l’orefice sparò e così fece in altre due occasioni, ogni volta che il rapinatore si rialzava. Al quarto colpo, che lo colpì dall’alto al basso appena sotto la clavicola, il rapinatore non puntò più la pistola, ma mise il sacco della refurtiva in spalla e se ne andò. Non percorse molta strada perché, arrivato sulla porta, spirò. L’ultimo colpo sparato gli aveva spaccato il cuore.
L’orefice, non aveva corso alcun rischio perché al rapinatore, qualcuno aveva fornito una pistola composita: un fusto della modello 92 made in U.S., un carrello della mod. 98, una canna calibro 40, ma un serbatoio pieno di cartucce cal. 9 parabellum che entravano dentro la canna dalla culatta e uscivano intere dalla volata.
Il magistrato, in tal caso, optò per la legittima difesa e fece riconsegnare l’arma sequestrata, in un primo momento, per gli accertamenti.
La cosa più conveniente per un orefice è di lasciarsi derubare. Alle volte, tuttavia, subentra un impulso naturale a reagire a un sopruso e allo stato di umiliazione cui certe violenze sottopongono l’individuo.
Un orefice, in centro città, era stato più volte derubato e, in un caso, di fronte ai suoi familiari, era stato costretto ad aprire la cassaforte. Comprò pertanto un’arma e disse che la volta successiva, a costo della vita, avrebbe reagito. E così avvenne. Uccise uno dei rapinatori e fu ucciso a sua volta.
Il negozio dell’orefice era in una piazza del centro e per fare i rilievi e trasportare le attrezzature era necessaria la vettura. Mentre, con un morto ancora a terra, stavo facendo i rilievi, un vigile urbano mi faceva la contravvenzione. Rappresentato e non ce ne era bisogno, cosa stessi facendo, non si degnò neanche di rispondere o di alzare lo sguardo. Poiché era presente il comandante dei vigili, riferii la cosa, ma mi rispose che non poteva interferire sull’operato dei suoi dipendenti. Dopo avergli chiesto per quale ragione gli avessero dato i gradi, piantai tutto e andai da sindaco che, dopo essere entrato nel suo ufficio senza neanche bussare, mi fece avere un tesserino di libera circolazione e, naturalmente, togliere la contravvenzione.
I rapinatori, nel caso, erano stati due: uno biondo e uno moro, uno con i baffi e l’altro senza, uno con un giubbino rossiccio e l’altro in camicia. Sei diversi testimoni dettero sei versioni differenti dell’assassino facendo tutte le combinazioni possibili. Successe anche in un famoso caso capitato a Londra, relativo a un crollo di un palazzo e oggetto di studio da parte degli esplosivisti, in cui per lo stesso fatto furono raccolte una ventina di testimonianze diverse.
In un altro caso, in un supermercato, due rapinatori stavano minacciando con un’arma la cassiera, moglie del titolare. Quest’ultimo corse, non visto, lungo le scaffalature sparò senza indugio sui due, una volta giunto loro di fronte. Il rapinatore armato morì subito mentre, l’altro, cadde a terra ferito e si beccò un secondo colpo: siccome la ferita nello stomaco bruciava, cercava di sollevare il maglione, l’esercente interpretò il fatto come un tentativo di estrarre una pistola. Fortunatamente, se la cavò. Anche in questo caso lo sparatore riebbe la sua Walther pp.

Non andrà sempre così.

In un altro caso, un anziano signore fu accusato di tentato omicidio volontario e premeditato. Vecchio, solo, indifeso, in una villa isolata e a 15 km dalla stazione CC più vicina, aveva sparato al buio dalla finestra sul giardino, con una vecchia pistola Browning mod. 900, presa dal padre ad un ufficiale austriaco nella guerra 15/18, caricata con cartucce marcate aprile 1915, anziché telefonare ai CC che sarebbero certamente arrivati “più veloci della luce” come “superman”. I colpi erano stati sparati in aria ma, il primo, verso il basso nell’aprire l’anta della finestra. Questo, secondo il magistrato, non era possibile perché i ladri avevano detto che la finestra era aperta, anche se quella aperta era effettivamente un’altra, da cui i bossoli non potevano arrivare nel punto in cui furono trovati.
Uno dei ladri, rimasto ferito e catturato da una guardia giurata per combinazione, gridava vendetta assieme al complice che si era costituito per amore di giustizia. I ladri avevano scavalcato il muro, tagliato i fili della luce e sfondato già una delle porte d’accesso.
Per fortuna, la conclusione logica, ma poteva essere altrimenti, è stata quella pubblicata qui di seguito. (frammento di giornale su cui era scritto: “A quattro anni dai fatti, scagionato da ogni accusa…”
In un altro caso un rapinatore morì con un colpo al cuore entrato dalla schiena. Prima di morire, pur avendo settanta anni, aveva corso per cinquanta metri e scavalcato un muro.
Era successo che, svegliato da rumore nel sottostante negozio di generi alimentari, il proprietario era stato spinto dalla moglie a scendere perché, altrimenti, sarebbe andata lei. Per le scale, l’uomo, tanta era la paura, ruzzolò e gli uscì il caricatore della pistola Mauser HSC, cal- 7,65 mm, come qualche volta capita con quest’arma. Quando finalmente giunse al piano inferiore, nel retrobottega, fu investito da due rapinatori in fuga, uno dei quali armato di una mezza forma di formaggio (arma impropria).
Mentre era violentemente sbattuto contro un frigorifero, l’uomo fece partire una sventagliata a casaccio di quattro colpi da terra al soffitto, uno dei quali, il terzo, colpì il rapinatore in fuga.
Anche in questo caso l’arma, una Mauser HSC in calibro 7,65 Browning, fu restituita. Il Pretore capo, l’unico magistrato con cui in quel momento avevo confidenza, che non era certamente un amico dei ladri, mi mandò a chiamare per dirmi che non era un reato da Pretura, come se fossi stato io a stabilirlo.
Mi rendo tuttavia conto di cosa significhi trovarsi un’arma puntata, contro e non ho pertanto disapprovato che sia stata riconsegnata subito la pistola alla guardia giurata che aveva sparato al rapinatore con la pistola puntata alla tempia di una commessa della COOP, anche se l’arma risulterà, poi, di plastica. La guardia morirà in uno scontro a fuoco durante l’assalto a un furgone blindato della cui indagine non fui interessato o perché ormai sapevo troppo circa questo tipo di crimine o perché avevo parteggiato per il “vecchietto” nel caso dell’assalto alla villa isolata di cui ho parlato prima.
A Gussago, un esercente sorprese tre ladri che portavano via materiale dal proprio negozio di articoli sportivi e fu aggredito dagli stessi. Sparò su tutti e tre. Il più grave fu quello colpito alla pancia in corrispondenza di un bottone di acciaio che frantumò il proiettile, salvandogli, con tutta probabilità, la vita.
Lo sparatore, esasperato, faceva una specie di “ronda di notte” e girava armato di una Beretta 98F con puntatore laser. I ladri erano disarmati, ma avevano la forza del numero, perché, l’arma gli fu restituita nonostante che presentasse le sue ragioni in maniera violenta e inurbana.
In Romagna, invece, a un maresciallo dei CC, andò in maniera diversa. Avuta notizia che era stata compiuta una rapina a mano armata e avvistata la macchina con i rapinatori, il militare si era messo al suo inseguimento con la potente Panda in dotazione, guidata da un suo carabiniere. Arrivato a ridosso della più veloce vettura perché si era infilata nelle strade cittadine, pensò di fermarla con un colpo alle ruote. L’azione pareva facilissima perché la distanza era di appena un metro, ma in quel momento arrivò un “panettone” o dosso, che alzò la traiettoria di trenta centimetri, sufficienti a far penetrare il proiettile nell’abitacolo e uccidere un noto pregiudicato.
Il maresciallo fu condannato, anche perché, dai vertici dell’Arma, si disse che avrebbe potuto sparare alle ruote solo se gli avessero sparato contro. Era come si dicesse, in breve, che per sparare, occorreva che ci fosse, prima, un carabiniere a terra morto. La condanna fu confermata in appello, ma un noto avvocato di Rimini riuscì a farlo assolvere in cassazione. La sentenza fece epoca.

Non molto lontano da Cattolica, invece, un altro maresciallo ferì gravemente un olandese che era penetrato nel terrazzo di casa sua. Il militare aveva intimato più volte l’alt, ma l’intruso, arrivato a pochi passi da lui, aveva alzato la mano come avesse voluto sparare e fu pertanto fermato da un colpo di pistola. In realtà, lo straniero aveva alzato la mano per far vedere la “contromarca” di una discoteca da cui era appena uscito, timbrata sul dorso della mano: era in preda all’alcol e, per ritornare nel locale, si era arrampicato fino al terrazzo. La cosa fu complicata dal fatto che il ferito dichiarava di essere stato colpito nella strada, cosa impossibile anche se presa in seria considerazione dal magistrato e, soprattutto, dal ritrovamento di una pistola scacciacani vicino al luogo del fatto. Nessuno riteneva, compreso lo stesso carabiniere autore del fatto, che la pistola potesse essere stata in mano all’intruso, anche se potevo portare ad esempio tantissimi casi di stranieri cui era stata sequestrata una pistola del genere, ritenuta spesso, da noi e solo da noi, erroneamente, “arma” in quanto “lanciarazzi”. Non so come sia andata a finire la cosa, ma ritengo che, trattandosi di un carabiniere, sia stato condannato.
Come, d’altronde, capitò a un finanziere che uccise un nord africano durante una colluttazione. Il militare era rimasto ferito alle braccia da un coltello che la vittima sicuramente possedeva perché commerciava in Hascisc, ma fu ritenuto colpevole di omicidio volontario come se, quella sera, fosse andato in giro al solo scopo di uccidere extracomunitari. Le ferite se le sarebbe prodotte da solo. Il coltello, in effetti, era rimasto due giorni nelle mani dell’investigatore senza sapere come era stato conservato e, sottoposto a esami vari, non aveva tracce di sangue. In appello, tuttavia, i giudici preferirono un più realistico “colposo”. In questo caso era stata l’indagine condotta da altri militari ad aggravare la sua posizione. Il cadavere infatti era stato trovato all’inizio di un vicolo che portava ad una piazzetta senza altre uscite. Gli investigatori avevano trovato il proiettile nella piazzetta appena girato l’angolo del vicolo e, ignorando che i proiettili possono rimbalzare, espressero l’ipotesi che lo sparo e l’uccisione erano avvenute all’interno della piazzetta, in modo da far pensare a non so quale opera di depistaggio operata dal finanziere.
In un altro caso, di notte e sopra un argine, un carabiniere impose l’alt a un latitante che scappò verso il buio pesto di una stradina perpendicolare all’argine stesso. Il militare sparo due colpi di avvertimento ma, ahimè, verso terra come lui stesso dichiarò. E fu la sua condanna, perché l’indomani, il latitante fu trovato morto per una ferita assolutamente non grave, se curata. In effetti, mancando il corpo del reato, era difficile associare la ferita ai colpi sparati dal carabiniere, perché il deceduto poteva aver avuto nemici che, nella migliore delle ipotesi, l’avevano lasciato morire. Il militare fu condannato per omicidio ritenuto per fortuna, colposo, ma solo in appello. Eppure, un colpo a terra, specie su terreno erboso, è assolutamente più sicuro di un colpo in aria. Un proiettile cal. 9 parabellum sparato sulla verticale è in grado di sfondare un cranio soltanto per la velocità assunta con l’accelerazione di gravità.
Molto tempo fa, un ragazzo, figlio di un ingegnere belga che lavorava a Ispra morì per un colpo 7,65 Brw., arrivatogli al cervello attraverso l’orecchio. Il colpo proveniva da un poligono distante circa 500 metri, dove i tiratori, dei poliziotti in addestramento, per colpire meglio il bersaglio, si portavano fuori dalla pensilina che avrebbe dovuto impedire i colpi alti e sparavano come si faceva nei vecchi film di Tom Mix, alzando in aria la canna della pistola prima di riportarela in orizzontale e sparare.
La condanna per omicidio volontario era stata riservata anche a un carabiniere che uccise un ragazzo.

Per me, era indubbio che il comportamento del militare non fosse stato corretto, ma far passare il ferimento come una vera e propria esecuzione, era un po’ troppo. Il tramite del proiettile sulla vittima era stato orizzontale e questo fatto era stato determinante al fine della volontarietà. Io non so se in Tribunale lo facciano apposta o non capiscano proprio che il tramite e la traiettoria sono due cose distinte. In udienza, l’avvocato di parte civile, per dare maggior efficacia alla sua eloquenza, tirò fuori, da sotto la toga, una pistola di plastica e simulò il colpo alla nuca sulla vittima inginocchiata. La traiettoria, invece, era chiaramente verso l’alto, perché fu trovato l’impatto del proiettile, fuoriuscito senza deviazioni, in una traversa metallica a due metri e mezzo di altezza e appena un metro dietro al punto in cui si trovava la vittima. In appello la condanna fu ridimensionata, anche se il fatto rimane deprecabile.
In un altro caso solo la fortuna salvò un militare da una più pesante accusa. Allertato per un furto in atto in una villa, la fortunata combinazione che uno dei suoi pallettoni colpisse il ponticello del grilletto e ferisse il dito indice di chi stava tentando il furto, dimostrò in maniera inequivocabile che l’arma era puntata su di lui in modo da rendere legittimo il suo intervento.
Per fortuna, a parte alcuni già raccontati, di fatti che hanno coinvolto militari, diciamo “esuberanti”, non ce ne sono tanti. Un giorno, durante un inseguimento, si sparò alle gomme per colpire invece il lunotto e, come capita spesso e purtroppo con i colpi sbagliati, rimase ucciso il passeggero che non aveva niente a che fare con la Giustizia. Il guaio più grave fu il rinvenimento a bordo dell’autovettura di una pistola che avrebbe dovuto giustificare lo sparo, col serbatoio sbagliato e presa in mano dal barelliere in modo da lasciarvi le sue impronte, della presenza di un finestrino chiuso, di un colpo accidentale partito da un mitra a vettura ferma, che un testimone diceva invece partito diceva invece sparato con la pistola rinvenuta, ed altre cose non chiare.

In un ultimo caso infine, capitato in Valtellina, alcuni militari si improvvisarono “buttafuori” di una discoteca e si immedesimarono talmente nell’incarico, da prodursi in un inseguimento in macchina di un disturbatore. Ci fu anche uno sparo alle gomme che colpì il portabagagli. Il colpo, ed è per questo che sto raccontando il fatto, perforò la carrozzeria, la lamiera del sedile posteriore, il sedile anteriore, trapassò il passeggero, un alpino in permesso che aveva chiesto un passaggio, il cruscotto e un contenitore posto nel portaoggetti. L’alpino, per fortuna, se la cavò.
Ho potuto notare che, quando ad un militare parte un colpo accidentalmente o comunque non finalizzato ad uccidere, normalmente va a bersaglio più spesso di quanto possa accadere in uno scontro a fuoco. Verrebbe da dire, a giustificazione di qualche colpo mortale “dubbio”, che se fosse stato sparato intenzionalmente non avrebbe sicuramente colpito la vittima!

 

DEDICATO AI PIU' GRANDI
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La foto di Romano Schiavi è stata prelevata dal profilo del Generale su Facebook
Il libro di Romano Schiavi è reperibile direttamente all’autore al costo di 30
euro scrivendo a romschi123@tin.it. (togliere il numero 123, che serve per evitare lo spam).
Romano schiavi scrive sui poligoni nel sito di Edoardo Mori: http://www.earmi.it/varie/poligoni1.pdf

 

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